Il patto di prova è una clausola accessoria del contratto di lavoro, in forza della quale datore e lavoratore subordinano la definitiva instaurazione del rapporto tra loro al positivo superamento di un periodo di tempo durante il quale verificano la reciproca convenienza del rapporto stesso. Durante questo periodo, il lavoratore valuta la prestazione richiestagli, le condizioni di lavoro e l’interesse per il ruolo assegnato; mentre il datore verifica le competenze del lavoratore in relazione alle mansioni da svolgere, nonché la capacità di integrarsi positivamente nell’ambiente lavorativo.
La particolarità del patto di prova consiste nella possibilità – riconosciuta a entrambe le parti ex art. 2096 Cod. Civ. – di “recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso o d’indennità”. Il recesso può essere comunicato in qualunque momento, salvo che il contratto collettivo applicabile preveda una limitazione alla libera recedibilità fissando un tempo minimo necessario per lo svolgimento della prova; inoltre, può essere intimato senza obbligo di motivazione o di giustificazioni, anche in forma orale.
Caratteristiche fondamentali di legittimità del patto
Secondo le previsioni dell’art. 2096 Cod. Civ., “l’assunzione del lavoratore per un periodo di prova deve risultare da atto scritto”. In mancanza di una precisa disposizione normativa, la giurisprudenza ritiene che il patto di prova deve essere sottoscritto antecedentemente o contestualmente alla stipula del contratto di lavoro. Il patto stipulato successivamente è nullo, senza possibilità di sanatorie; e il rapporto di lavoro è definitivo sin dall’inizio.
Il patto di prova deve inoltre contenere la chiara e specifica indicazione delle mansioni affidate al lavoratore, oggetto della sperimentazione. In mancanza, il patto si considera nullo con l’automatica conferma dell’assunzione in via definitiva. L’indicazione delle mansioni può avvenire anche per relationem, ossia mediante rinvio alle declaratorie del contratto collettivo che definiscono le mansioni comprese nella qualifica di assunzione, purché questo rinvio sia sufficientemente specifico ovvero fatto alla nozione maggiormente dettagliata tra quelle presenti nel contratto collettivo.
Durante il periodo di prova, il lavoratore deve effettivamente svolgere le mansioni dedotte in contratto; altrimenti, il datore non può invocare l’esito negativo della prova per intimare il recesso. Anche nel caso di svolgimento di mansioni diverse da quelle di assunzione o ulteriori che determinano – sotto il profilo sia quantitativo che qualitativo – un mutamento dell’oggetto complessivo della prestazione, è illegittimo il recesso per esito negativo della prova.
Il Decreto Trasparenza e la durata massima del patto di prova
Il D.Lgs. n. 104/2022 (cd. Decreto Trasparenza) è intervenuto – tra altro – in materia di patto di prova, regolamentandone la durata massima, la possibilità di reiterazione e i casi di sospensione.
L’art. 7, comma 1, D.Lgs. n. 104/2022 stabilisce che il periodo di prova “non può essere superiore a sei mesi, salva la durata inferiore prevista dalle disposizioni dei contratti collettivi”.
Per il nostro ordinamento non si tratta di una novità. La durata massima del patto di prova è in genere stabilita dalla contrattazione collettiva, entro i limiti previsti dalla legge. A questo proposito, il limite di sei mesi era stato ricavato – già da tempo – indirettamente dall’art. 10 L. n. 604/1966, secondo il quale la tutela contro i licenziamenti illegittimi si applica “per quelli assunti in prova, […] dal momento in cui l’assunzione diviene definitiva e, in ogni caso, quando sono decorsi sei mesi dall’inizio del rapporto di lavoro”. Inoltre, continua a trovare applicazione l’art. 4 del R.D.L. n. 1825/1924, che con riferimento all’impiego privato fissa la durata massima della prova in sei mesi per “gli institori, procuratori, rappresentanti a stipendio fisso, direttori tecnici o amministrativi ed impiegati di grado e funzioni equivalenti”, e in tre mesi per “tutte le altre categorie di impiegati” non aventi funzioni direttive.
La durata massima di sei mesi rappresenta anche il limite entro il quale è possibile prorogare il periodo di prova inizialmente pattuito o fissato dal contratto collettivo, sempre che il prolungamento si risolva in concreto in un interesse del lavoratore o in una posizione di favore per lui (con onere probatorio gravante sul datore di lavoro).
Divieto di rinnovo del patto di prova
L’art. 7, comma 2, D.Lgs. n. 104/2022 stabilisce che “nel rapporto di lavoro a tempo determinato, il periodo di prova è stabilito in misura proporzionale alla durata del contratto e alle mansioni da svolgere in relazione alla natura dell’impiego”. Aggiunge poi: “in caso di rinnovo di un contratto di lavoro per lo svolgimento delle stesse mansioni, il rapporto di lavoro non può essere soggetto ad un nuovo periodo di prova”.
La disposizione recepisce quell’orientamento giurisprudenziale che, basandosi sulla ratio del periodo di prova, ha escluso la possibilità di stipulare tra le medesime parti più patti successivi aventi ad oggetto le stesse mansioni. Peraltro, molte pronunce hanno dichiarato la nullità del patto di prova ripetuto con lo stesso lavoratore e per le stesse mansioni, anche quando l’impiego precedente non si è svolto con assunzione diretta, ma in somministrazione, in distacco, in caso di cambio di appalto o di trasferimento del lavoratore tra aziende facenti capo alle stesse persone.
In alcuni casi, però, la giurisprudenza ha ammesso l’apposizione del patto di prova in due successivi contratti di lavoro anche per lo svolgimento di mansioni analoghe, laddove sia accertata la necessità di una verifica ulteriore rispetto a quella relativa alle qualità professionali, oppure circa elementi sopravvenuti rispetto alla valutazione già compiuta, oppure ancora in ordine alla persistenza di quei fattori – attinenti non solo alle capacità professionali, ma anche alle abitudini di vita e alle condotte di comportamento – suscettibili di modificarsi nel corso del tempo.
Il disposto dell’art. 7, comma 2, del Decreto Trasparenza sembra escludere categoricamente la reiterazione del patto di prova per lo svolgimento delle stesse mansioni. Si pone dunque il problema se siano ancora ammissibili delle eccezioni come quelle considerate dalla giurisprudenza, oppure no.
Invece, in forza del tenore letterale della norma, può ritenersi legittima l’apposizione del patto di prova in due successivi contratti se tra i diversi rapporti di lavoro c’è un radicale cambiamento nelle mansioni richieste al lavoratore.
Sospensione del decorso del periodo di prova
Infine, l’articolo 7, comma 3, D.Lgs. n. 104/2022 disciplina il prolungamento del periodo di prova quando intervengano particolari eventi, che determinano l’impossibilità della prestazione. La norma prevede esplicitamente che “in caso di sopravvenienza di eventi, quali malattia, infortunio, congedo di maternità o paternità obbligatori, il periodo di prova è prolungato in misura corrispondente alla durata dell’assenza”.
Anche su questo aspetto la giurisprudenza si era già espressa nel senso di ammettere la sospensione del periodo di prova quando la prestazione non è effettuata a causa di eventi non prevedibili, facendo riferimento anche alle ipotesi delle ferie, dei permessi o degli scioperi.
Adesso, però, la norma individua esplicitamente alcuni casi, ponendo il problema se quell’elencazione sia tassativa oppure eventi diversi da quelli indicati possano comunque dare luogo alla sospensione / prosecuzione del periodo di prova.
Il tenore letterale della disposizione sembra escludere il carattere tassativo dell’elencazione, da considerarsi invece come un’esemplificazione: ciò può dedursi dall’utilizzo dell’aggettivo “quale”. Di questo avviso è anche il Ministero del Lavoro che nella Circolare n. 19/2022 ha chiarito che il richiamo normativo deve intendersi come “meramente esemplificativo”, ritenendo che il prolungamento del periodo di prova si determini anche “in tutti gli altri casi di assenza previsti dalla legge o dalla contrattazione collettiva, fra cui anche i congedi e i permessi di cui alla legge n. 104/1992 (cfr. Cass. n. 4573 del 22 marzo 2012 e Cass. n. 4347 del 4 marzo 2015)”.
La posizione del Ministero recepisce quanto affermato dalle pronunce giurisprudenziali in materia e si fonda sulla considerazione della “finalità del periodo di prova”: tutte le assenze non prevedibili – e non solo quelle espressamente richiamate dall’art. 7, comma 3, D.Lgs. n. 104/2022 – vanificherebbero l’effettivo esperimento della prova, in mancanza di un prolungamento corrispondente del periodo.
In conclusione
L’art. 7 D.Lgs. n. 104/2022 rappresenta sicuramente una novità sotto il profilo della regolamentazione del patto di prova. In realtà, però, la disciplina ivi contenuta non fa altro che recepire principi già affermati e consolidati in giurisprudenza, che vengono così cristallizzati in una norma.
L’auspicio è che ciò contribuisca ad eliminare possibili incertezze applicative e interpretative, anche se alcuni aspetti di criticità permangono ed altri – ad esempio in ordine alla proporzionalità della durata del patto di prova apposto ad un contratto a termine – si pongono.
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